G.E. Moore spiegato ai ragazzi
George Edward Moore, o semplicemente G.E. Moore, è uno di quei filosofi che, anche se non fanno clamore come Nietzsche o Hegel, hanno avuto un’influenza enorme sul pensiero del XX secolo. Nato nel 1873 a Londra, Moore è stato uno dei principali esponenti della filosofia analitica, un movimento che cercava di rendere la filosofia più chiara, precisa e… beh, più sensata (Si capisce di quale cricca faccio parte, vero?). In questo nuovo articolo di Filosokids – filosofia per piccoli e grandi curiosi, il pensiero di G.E. Moore spiegato ai ragazzi.
Il buon senso contro lo scetticismo
Se dovessimo descrivere Moore in una parola, sarebbe “anti-sciocchezze”. Non era uno di quei filosofi che si perdevano in complicate astrazioni; invece, cercava di portare la filosofia su un terreno solido, basato su ciò che possiamo sapere con certezza (si, è vero, lo dicono anche gli altri). Una delle sue idee più famose è il concetto di “buon senso“. Moore credeva che alcune cose fossero così ovvie che dubitarne era semplicemente assurdo.
Lui picchiava (metaforicamente) gli scettici (ricordate Cartesio?).
Anche se il modo con cui lo faceva è volutamente sempliciotto e provocatorio. Il suo famoso esempio si riassume in una frase: “Qui c’è una mano“. Potrebbe sembrare una cosa banale da dire, ma Moore usava questa affermazione per dimostrare un punto importante contro lo scetticismo radicale. Alcuni filosofi più estremi avrebbero messo in dubbio persino l’esistenza delle proprie mani, ma Moore rispondeva: “Guardate, ho due mani. Questo è qualcosa di cui possiamo essere certi.” E con questo semplice gesto, Moore mostrava che c’è un livello di certezza nel mondo che non può essere negato. Nel senso, è ovvio che le mani potrebbero anche essere proiettate nella nostra coscienza da un supercomputer alieno o da un qualche demone maligno… ma il punto è ‘chissenefrega!’. Tutti ci vediamo le mani, tutti sappiamo cosa sono… che senso ha passare ore a dibattere se esistono davvero?
Moore era un grande difensore del realismo, l’idea che esiste un mondo esterno indipendente dalle nostre percezioni. Per lui, negare l’evidenza di ciò che vediamo e tocchiamo era andare contro il buon senso. Questo approccio lo portò a sfidare alcuni dei filosofi più importanti della sua epoca, come i suoi amici Bertrand Russell e Ludwig Wittgenstein, con i quali ebbe dibattiti epici su questi temi. Ora, litigare di filosofia con uno di questi due è tipo l’ultima cosa che vorrei fare nella mia vita. Vado piuttosto addosso ad un orso, avrei più probabilità di sopravvivere.
Principia Ethica e la fallacia naturalistica
Il libro più famoso di Moore, però, non ha a che vedere con la percezione, ma con la morale: si intitola “Principia Ethica“, pubblicato nel 1903, e ha cambiato il corso della filosofia. Moore era preoccupato per il modo in cui le persone cercavano di definire il “bene”. Molti pensavano che il bene potesse essere ridotto a qualcosa di scientifico o materiale, ma Moore non era d’accordo. Lui sosteneva che il “bene” è una qualità semplice e non riducibile, qualcosa che non può essere completamente spiegato in termini di altre cose.
Per chiarire questo punto, Moore ha introdotto l’idea di “fallacia naturalistica“. Questa è la fallacia, o errore, di pensare che il bene possa essere definito in termini di proprietà naturali, come il piacere o la soddisfazione.
Detto in parole molto semplici: la descrizione di una cosa non può essere considerata una ragione sufficiente per agire in un certo modo. Il ‘cosa è buono’ è un giudizio, dipende da chi lo dice e basta.
Descrizione vs prescrizione: il confine dell’etica
Per Moore, il bene è qualcosa di “indefinibile“, un concetto di base che non può essere scomposto in parti più piccole.
Qui si incasina. Pensiamo a una mela. Si può descriverla dicendo che è rossa, dolce e succosa. Queste sono tutte proprietà della mela. Ma nessuna di queste descrizioni ti dice se è “buono” mangiarla o no. Perché? Perché la bontà è una qualità che non puoi trovare semplicemente descrivendo la mela. È un concetto diverso, che non può essere ridotto a caratteristiche fisiche o a fatti naturali.
Andiamo all’etica. Supponiamo che qualcuno dica, “Gli esseri umani sono animali sociali, quindi dovremmo sempre vivere in grandi gruppi.” La descrizione qui è “gli esseri umani sono animali sociali,” che è un fatto su come siamo fatti. Ma dire “dovremmo vivere in grandi gruppi” è una prescrizione, cioè un consiglio su cosa fare. Secondo Moore, non puoi semplicemente passare da una descrizione (“siamo sociali”) a una prescrizione (“dovremmo vivere in grandi gruppi”) senza aggiungere qualcosa di più, perché il fatto che siamo sociali non dice automaticamente cosa è “buono” fare.
L’eredità di Moore: semplicità e buon senso
Questo modo di pensare ha avuto un grande impatto sul modo in cui i filosofi successivi hanno trattato l’etica. Ha spinto la filosofia morale a concentrarsi più sul valore intrinseco, e cioè interno, delle cose piuttosto che cercare di spiegare il bene attraverso altre qualità. E, ironicamente, anche se Moore cercava di evitare definizioni complicate, il suo lavoro ha aperto un intero nuovo campo di discussione filosofica.
Riepilogo! Cosa ci insegna G.E. Moore? Che a volte, il buon senso è la migliore guida. Che non dobbiamo complicare le cose più del necessario (anche se lui è il primo a farlo). E che, quando si tratta di etica, ci sono alcune verità di base che non possono essere scomposte o ridotte a qualcos’altro… e a volte le risposte più importanti sono proprio davanti ai nostri occhi. O, come direbbe lui, “Qui c’è una mano“.
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